Inauguriamo qui una serie di riflessioni sugli strumenti della comunicazione visiva. Sono il condensato di interventi che ho tenuto negli anni in seno a progetti formativi del Comune di Venezia, in vari master in comunicazione e per corsi più strutturati presso l’Albe Steiner di Ravenna.
Ma non mi dedico più alla formazione da qualche anno – eccetto che per qualche giornata quando Pagina è chiamata a offrire consulenza in comunicazione, soprattutto in ambito politico – e non avendo conservato degli appunti, mi perdonerete se ogni tanto salterò di palo in frasca.
Il nostro augurio è che vi divertiate. E che se vi capiterà di chiedere a un professionista di modificare un progetto, vi sentiate un po’ in colpa!
Il luogo del delitto
Se nei gialli il colpevole è sempre il maggiordomo, nella comunicazione visiva lo è la scena del crimine.
Quantomeno, lo spazio non è mai del tutto innocente.
Per cominciare facciamo un punto.
Dove? Elementare Watson…
qui al centro, se voglio dirti che sono equilibrato,
qui a sinistra invece, per suggerirti che ho esperienza,
a destra, che sono giovane,
in alto, che ho dei valori,
e qui, in basso, perché sono concreto.
Gli indizi
Quel che vediamo (un dipinto, l’immagine sullo schermo e ovviamente anche quella porzione dello spazio fisico davanti a noi dove stanno le cose) è stato definito campo percettivo da Edgar Rubin, del quale forse conoscete il Vaso del 1915.
Ma qui, più dei giochini figura-sfondo di Rubin, ci interessa la sua intuizione dello sfondo come sostanza, soprattutto dopo che la psicologia della gestalt l’ha condita di un’ingrediente fondamentale: la struttura. La struttura è lo spazio “organizzato” che, già di per sé, comunica. Lo spazio ci parla ancor prima che ci siano dentro le cose.
Se pensate che lo spazio sia solo del posto da riempire, come ad esempio una libreria, che cosa vi fa scegliere una Expedit o una Billy?
Sono giusto dei contenitori vuoti, finché non li riempi di libri, cd o sorpresine Kinder… no?
No, perché nel momento stesso in cui lo guardiamo, il vuoto non è più vuoto.
E quindi è soggetto a un’estetica: base e altezza, simmetrie e proporzioni, ecc.
In verità, caro Watson, è lo sguardo dell’uomo, animal symbolicum alla ricerca di significati, che non è mai innocente.
Nel suo guardare l’uomo segmenta lo spazio; e in particolare, quando lo spazio è ben definito, incorniciato, lo scruta attendendosi che vi sia una struttura.
La prossima volta, se vi va, scruteremo l’orizzonte. (continua)
Giovanni Capponi